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Equi ed Equicoli
Gli Equi
Gli equi ebbero le origini da colonie sicule; sono annoverati tra i popoli più antichi d'Italia; ebbero fama di gran gente, giusta li decanta anche Cicerone, e sostennero sanguinose guerre, con i vicini aborigeni, rimanendone sempre vincitori. Senonchè fu loro tolta una buona parte del territorio, allorquando gli indicati aborigeni, si collegarono con i sopravvenuti pelasgi. Gli storici antichi non sono concordi sull'epoca della venuta pelasgica in Italia; il Cliton, seguito dai più, la fissa a 1750 anni avanti Cristo. Gli aborigeni avevano bene accetta quella gente, nella loro giurisdizione, per resistere e porre un argine alle invasioni e guerre con i vicini equi, o equicolani, denominati posteriormente in parte Cicoli, dagli originari sicoli o siculi.
I sicoli, siculi o sicani appartenevano a un antichissimo popolo iberico, situato tra il Caucaso e il mar Nero, che passò prima nella Saturnia e poi dall'Etruria alla Sicilia, a cui diede il nome. I pelasgi, a testimonianza di quanto scrissero Varrone e Dionisio di Alicarnasso, dopo aver avuta una dominazione, anche nella nostra regione, di circa duecentosessanta anni, furono cacciati dall'Italia, con aspri e sanguinosi combattimenti, dalla prima impresa d'indipendenza, sorta con la fraterna lega del sabelli, equi, osci, etruschi e umbri. Virgilio racconta che le schiere del popoli d'Italia, nel 1184 avanti Cristo, marciassero contro Enea, sotto la direzione e comando di Ufente, valoroso capitano equo e di Messapo e Marenzo, provetti condotticri etruschi.
Tito Livio, che fu il principe del narratoni latini, poi rocconta categoricamente le lunghe e aspre guerre, combattute dagli equi contro Roma, dai tempi di Tarquinio il Superbo, alla loro completa disfatta.
Nel 260 Coriolano, alla testa di un esercito di equi e di volsci, aveva affamato la città di Roma, saccheggiandone il territorio, non le armi, ma le sole preghiere di sua madre Vetruria e di Volummia sua moglie, lo indussero ad abbandonare l'assedio della trepidante città. Nel 290, il proconsole T. Quinzio fu sollecito a intervenire in sostegno dell'esercito condotto da Fuso Furio, che era stato assediato dagli equi, nei suoi accampamenti. Il proconsole salvò l'esercito romano da distruzione certa, ma, a testimonianza di Valerio Anziate, ebbe la perdita di 5300 uomini.
Nel 295, con le armi, gli equi avevano conquistata Rocca Tuscolana, ove assediati, si arresero per fame e non per forza.
Nel 296, Cincinnato riuscì a liberare il console Minuccio, dall'assedio di Gracco Clelio, condottiero e imperatore degli equi. Nel 297, costoro distrussero la guarnigione romana a Corbione, loro città dovuta cedere l'anno innanzi a Cincinnato. Nel 305, ottennero grande vittoria sui romani, presso Algido.
Nel 323, corsero in aiuto del volsci, contro Roma, ma ne rimasero vinti, benchè causassero gravi perdite all'esercito avversario. Nel 337, disfecero l'esercito romano, condotto da Lucio Sergio Fidena e da Marco Papirio Magellano; nel 341, annientarono e fecero a pezzi il presidio romano, rimpossessandosi della loro città Bola e nel 396 invasero Rocca Caventana e ne uccisero la guarnigione. Stretta alleanza con i volsci, combatterono guerre sanguinosissime contro Roma, negli anni 260, 266, 279, 283, 285, 290, 291, 292, 293, 305, 308, 323, 345, 346, e 366; con i sabini negli anni 260, 296, 297, e 304; con i lavicani nel 337 e con i latini, ernici ed etruschi nel 366.
I sanniti, che sostennero contro i romani, con varia fortuna, lotte feroci, furono aiutati dagli equi dal 429 sino alla loro fine.
Quindi l'ardimento della confederazione equa, giunse al punto di minacciare di saccheggio e di assedio, sin sotto le mura, la futura dominatrice del mondo,
Senonchè nel 449, dinanzi a un compatto e poderoso esercito, capitanato dai consoli Saverrione e Sobo, gli equi, temendo la sconfitta, notte tempo abbandonavano il campo, con la intenzione di difendere ognuno i propri luoghi.
Grave fu l'errore, perchè se uniti erano stati invincibili e potevano sperare la vittoria sui romani, divisi, ne divennero facile preda. Infatti in soli cinquanta giorni, furono dalle schiere romane espugnate ed oppresse ben quarantuno loro città, tra le quali Oricola. Insorsero gli equi nel 451, per riconquistare la perduta città di Albe, e in Roma destarono grande apprensione, ma creato dittatore Caio Bruto Balbutto, rimasero da questi soprafatti. Nel 452 ripresero le armi contro i romani, ma anche questa volta non sortì buon effetto la loro sollevazione, poichè furono affranti da Marco Valerio e può dirsi che venissero a scomparire dalla storia.
La confederazione equa era formata da città indipendenti le une dalle altre. Si conoscono i nomi di cinque loro capitali: Trebe (Trevi), Carseoli, Nersae, Vetellia (Bellegra), e Albe, l'ultima delle quali è controverso negli storici, se fosse equa o marsa. Tito Livio, Strabone e Dion Cassio, portano Albe come cittá equa, mentre Festo, Silio Italico e Tolomeo la dicono marsa. I primi però sono più attendibili, tanto per la prevalente loro autoritá storiografa, quanto perchè i secondi sono più recenti e possono riferirsi a cambiamenti di circoscrizioni posteriormente avvenuti. Infatti, senza questa logica interpretazione, non potrebbe spiegarsi il tentativo degli equi, nel 451, di ricuperare la città di Albe Fucense. Tali capitali erano costituite solo come centri di luconomie (sic!) e come luoghi destinati alla discussione degli affari della speciale repubblica e non con dominio assoluto sulle altre città.
Dagli storici antichi, gli equi venivano rappresentati come espertissimi nell'arte delle guerra, come istitutori delle leggi feciale e sacrata e come quelli che diedero agli altri popoli le nozioni del diritto pubblico.
Secondo le norme feciali, in questo popolo, ravvisiamo la sua indole basata sulla equità e giustizia, inquantochè inspirate nel rispetto della vita e della proprietà altrui, nonchè sulla indissolubilità della famiglia e della Patria. Per le disposizioni della legge sacrata il carattere eminentemente bellico della stirpe era statuito sul dovere di difendere la terra natale, con la vittoria o con la morte. Nè può toglierne l'importanza morale, la descrizione che ci viene tramandata dall'Eneide, libro VIII, quando gli equi ci vengono ricordati usì a guadagnare la vita con la caccia e con la rapina. L'espressione al vivere rapto va intesa non come furto, scorreria e saccheggio, tanto comuni in quelle epoche primitive, ma come conquista di guerra.
Al par degli altri popoli, anche gli equi ebbero dei re, il primo del quali fu Settimio Modio e il secondo Sertorio Resio, che fu dichiarato istitutore della legge feciale, quando Anco Marzio la fece adottare in Roma. Successivamente, nel 296, ebbero l'imperatore Gracco Clelio, che dopo aver cinto di assedio l'esercito romano, condotto dal console Minucio, fu fatto prigioniero da Cincinnato, accorso in aiuto del predetto console. A testimonianza poi di una epigrafe, rinvenuta nel Cicolano e riportata dal Longini, con il N. 34, in un tempo gli equi erano governati da un medixtuticus, per le cose religiose, civili e militari. Detto supremo magistrato aveva le stesse mansioni che esplicavano il dittatore nel Lazio, l'imperatore nella Sabina e il luconome (sic!) nell'Etruria. Ovidio nei versi, dal 689 al 711 del Fasti, libro IV, ci enumera le occupazioni di questo popolo, quando narra che l'uomo era intento alla coltura del suo terrenuccio con l'aratro, bidente e falce e la donna a racimolare con il rastrello le erbe del prati, a porre in cova le uova, a raccogliere gli erbaggi e i funghi, a riaccendere il fuoco già spento e a tessere la tela.
Virgilio poi ci narra che gli equi rozzi, gagliardi e forti, erano soliti a coltivare armati il proprio campicello. Fra le loro armi si annoveravano le frecce di selce e di bronzo, la fionda e lo sparo, che era una specie di chiavellotto (sic!) micidialissimo, somigliante al pilo delle romane legioni. Silio Itatico narra che le armi da loro preferite erano nodosi bastoni, spade con punte corte ed elmi di bronzo con superbe creste. Virgilio, nel IX libro dell'Eneide, descrive gli equi belli nelle armature: Continuo Quercens et pulcher Equicolus armis. Quindi la loro vita poteva racchiudersi nel bimonio (sic!) economia domestica e guerra nella quale ultima ponevano ogni impegno e costanza. Nei concili nazionali come in genere i popoli antichi, d'Italia, si adunavano in un determinato luogo, nell'ambìto del proprio territorio, per discutere gli affari più importanti e specialmente se dovevano o no dichiarare una guerra, per la quale se ne eleggevano i supremi capitani.
Detti concili cessarono, dopo la loro soggiogazione a Roma e li troviamo ripristinati durante la guerra sociale, nella importante Corfinio, presso Pentina nel Sannio, che fu destinata a Capitale, con il cambiamento di nome in quello di Italica. Ebbero corporazioni politico-religiose, tra cui le Augustali di origine romana. A capo degli Augustali, che erano ì ministri del lari di Augusto, vi era un collegio di sei magistrati chiamati Lari. Da qui ebbero origine i giuochi augustali, istituiti da Tiberio, nel 14 dopo Cristo, le cui feste in onore dell'Imperatore, si celebravano dai 5 agli 11 ottobre. I Lari rappresentarono i genii tutelari delle famiglie, costituiti da statuette, che venivano collocate in specie di tempi, chiamati lararium. Gli equi professavano, come quasi tutti i popoli primitivi, la religione monoteistica e conoscevano in origine solo il loro Giano. Con l'immigrazione pelasgica fu introdotto il politeismo e si ebbe un culto speciale per Marte Ultore, giusta l'epigrafe N. 45, rinvenuta in Carseoli e riportata dal Garrucci nel bollettino archeologico napoletano. Si venerarono inoltre Giove, Giunone, Vesta, Diana, Sole, Serapide e Minerva, a testimonianza delle iscrizioni epigrafíche, elencate nell'opera del ripetuto Longini, sulle Memorie Storiche sulla Regione Equicolana.
Restano memorie che S. Pietro Apostolo si recasse personalmente in questi luoghi per evangelizzarne gli abitanti. Anzi giusta riferisce il Pierantoni nel suo Diario Sacro del Lazio, a pag. 126, S. Pietro Apostolo, reduce dalla inaugurazione dell'emissario del Fucino, ove aveva accompagnato i cristiani, che presero parte al finto combattimento navale, chiamato naumachia, indetto dall'Imperatore Claudio, fu ospite gradito in Carseoli, e per parecchi giorni, del centurione Cornelio, da lui convertito in Palestina. Sappiamo che gli equi, in Roma, furono tenuti in gran prestigio, ma, avvenuta la fusione con quel popolo, non li troviamo più accennati nella storia. Solo il rinvenimento di monete delle varie epoche, ci dimostra che questa regione fu sempre abitata.
Gli equi vennero dai romani, ripartiti in quattro tribù: Fabia, Aniense, Terentina, e Claudia. La nostra Carseoli e adiacenze, nel 453 di Roma, andò a far parte della tribù Aniense.
Ai tempi dell'imperatore Augusto, l'Italia venne divisa in undici regioni e gli equi fecero parte della quarta. Durante l'impero di Adriano, passarono a far parte della tredicesima provincia, mentre andarono a formarne la quattordicesima, all'epoca di Costantino. Ai tempi poi di Onorio, della provincia del Sannio, di cui gli equi facevano parte, si disgregò una zona per costituire la provincia Valeria, la quale fu la tredicesima ed era costituita di equi, sabini, peligni e vestini. Con i continui cambiamenti di circoscrizione, gli equi vennero a confondersi con i popoli vicini ed è perciò che rimane difficile fissarne la primitiva ubicazione: essi andarono a ingrandire le regioni del Lazio, della Sabina e della Marsica.
Della lingua parlata dagli Equi prima della conquista romana non abbiamo annotazione; ma poiché i Marsi, che vivevano subito ad est, parlavano nel III secolo a.C. un dialetto molto analogo al Latino e poiché gli Ernici, i loro vicini a sud-ovest, facevano lo stesso, non abbiamo basi per separare qualcuna di queste tribù dal gruppo dei Latini. Se potessimo essere sicuri dell'origine della q nel loro nome e del rapporto fra la forma più corta e quella più lunga (nota che la i di Aequiculus è lunga -- Virgilio, Aen. VII. 744 -- il che sembra collegarla con il locative del aequum "una pianura", in modo che significhi "gli abitanti nella pianura"; ma in periodo storico certamente hanno vissuto principalmente nelle colline), dovremmo sapere se dovevano essere raggruppati con i dialetti con del q o con i dialetti del p, cioè, con da una parte con il Latino, che ha conservato un originale q o dall'altra con il dialetto di Velitrae, comunemente denominato Volsco (e i Volsci erano costanti alleati degli Equi), in cui, come nei dialetti Iguvini e Sanniti, un q originale è cambiato in p.
Non c'è evidenza decisiva per mostrare se il q Latino di aequus rappresenti una q indoeuropea come nel Latino quis, cioè l'Umbro-Volsco pis, o un indoeuropeo k + u come in equus, Umbro ekvo -. L'aggettivo derivativo Aequicus potrebbe essere preso per metterli con i Volsci piuttosto che con i Sabini, ma non è chiaro se questo aggettivo sia mai stato usato come un reale etnico; il nome della tribù è sempre Aequi, o Aequicoli.
Alla fine del periodo repubblicano gli Equi appaiono, sotto il nome di Aequiculi o di Aequicoli, organizzati come un municipium, il cui territorio sembra che abbia compreso la parte superiore della valle del Salto, ancora conosciuta come Cicolano. È probabile, tuttavia, che abbiano continuato a vivere nei loro villaggi come prima. Di questi Nersae presso Nesce, una frazione di Pescorocchiano, era il più considerevole. Le mura poligonali che esistono in considerevole quantità nel distretto, rappresentano una notevole testimonianza della loro cultura.
Gli Equicoli
L'alta valle del Salto, denominata Cicolano, deriva il suo nome dagli equicoli che un tempo l'abitavano. Fin dalla tarda età Repubblicana, le popolazioni stanziate nella nostra Valle furono identificate con questo nome. Gli Equicoli, appartenenti al gruppo linguistico tosco-umbro, occupavano la valle dell'Aniene la zona intorno al Fucino, la pianura Carsolana e la Valle del Salto che costituiva la principale via di comunicazione tra le popolazioni del Fucino, la Valle dell'Aniene, e della Pianura Reatina. Con il termine equicoli (Aequiculi /Aequicoli), entrano in uso nella letteratura e nell' epigrafia soltanto a partire dalla tarda età repubblicana (II/I sec. a.C.), si definivano le genti distribuiti lungo la, residuo dell' antica nazione degli Equi, il cui territorio, originariamente ben piu' vasto, dopo la conquista romana (fine IV- inizi III sec. a.C.) venne circoscritto in quest' area nel cuore dell' Appennino centrale, probabilmente corrispondente alla sua sede primitiva. La tradizione letteraria ci parla di due re degli Equicoli, Septimus Modius e Ferter Resius. Al secondo viene attribuita l' introduzione a Roma, al tempo del re Numa od Anco Marzio, dello ius fetiale (diritto dei feziali), attraverso il quale venivano nominati dei sacerdoti, i feziali, il cui compito era quello di regolare i rapporti con le popolazioni confinanti, tanto nei trattati di pace quando nelle dichiarazioni di guerra. Questa notizia viene riportata anche da un' iscrizione a Roma sul colle Palatino (CIL VI 1302), e conservato nell' omonimo museo: In generale gli Equicoli nelle fonti letterarie greche e latine sono descritti come un fiero popolo bellicoso, che vive di guerre e di saccheggi, ma anche di caccia, praticabile nei rigogliosi boschi della Valle del Salto, ed anche di agricoltura, per quello che l' asperità del territorio consentiva. Emblematica è la loro descrizione fatta da Virgilio nell' Eneide (Aen. VII 744-749) : In seguito alla sconfitta patita dai romani nel 304 a.C. , la popolazione degli Equi venne in gran parte sterminata, e quello che ne rimase venne concentrato proprio nel territorio della Valle del Salto, che assunse appunto il nome di ager Aequiculanus.
Dal 1984 la Soprintendenza Archeologica del Lazio sta portando avanti una serie di campagne di scavo, indagini archeoligiche e ricerche di superficie atte a determinare i principali momenti degli insediamenti nella Valle del Salto, ad individuare le possibili forme di utilizzazione del suolo ed a delineare alcuni aspetti che caratterizzavano la società locale. E' stata condotta un'interessante campagna di scavo archeologico, finalizzata al recupero di una necropoli di tombe databili tra il VI e la prima metà del V secolo a.C.
I primi insediamenti sono caratterizzati da alcuni villaggi all'interno della piana di Corvaro che sembrano resistere fino alla prima Età Imperiale. Nella stessa area si hanno le testimonianze più numerose di resti archeologici di notevole importanza relativi all'età del Bronzo. Con la costituzione nel 1927 della provincia di Rieti, il Cicolano, fino ad allora parte della regione Abruzzo, venne incluso nel territorio della nuova Provincia.
Ne fanno parte i Comuni di Borgorose, Petrella Salto, Pescorocchiano e Fiamignano. Questa zona, il cui passaggio è caratterizzato dalla presenza di numerosi terrazzamenti di incerta attribuzione, attirarono l'interesse di alcuni studiosi del secolo scorso. Antichi municipi di quest'area furono Cliternia (l'attuale Capradosso), più vicina all'area sabina e la Res Pubblica Aequiculanorum che costituiva il Municipio territoriale mantenente l'antico aspetto pagano che aveva in Nersae il suo maggior centro ricordato da Virgilio e da Plinio: era L'età Augustea.
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